Oh ma guarda, sei ancora qui, nonostante l’autore non sia uno sconosciuto e la copertina accattivante. Cos’è che non ti fa apprezzare?
-si, penso abbiate capito, sono io che parlo con un libro nel posto in cui lavoro. Sto spolverando e sistemando e mi imbatto ancora e ancora giorno dopo giorno in questo volumetto fasciato di nero con la foto del cibo a far da padrona. Il titolo attira IL BANCHETTO DI NOZZE E ALTRI SAPORI, la posizione in cui l’abbiamo messo è giusta per il genere… o forse no? –
Allora perché dopo quasi un anno sei ancora qui?
Sono curiosa di natura, tanto più quando si tratta di un libro. Così lo prendo, lo sfoglio, lo annuso, e senza nemmeno accorgermene, lo inizio a leggere.
“C’è un incontro quotidiano che scandisce e rende più bella la nostra vita, che ci sa sorprendere creando connessioni inattese e meravigliose. L’incontro con il cibo.”[1]
Aaaaah quanto è vero, specialmente qui in Italia.
Oh, forse ho capito perché non riusciamo a venderti, mio bel libro, non sei un romanzo, sei un’autobiografia. E leggere un’autobiografia non è come leggere un romanzo. Prima di tutto ci deve essere una cosa che muova il lettore a preferire quella specifica vita, quella particolare persona.
Autobiografia poi significa che non c’è nemmeno il filtro di un biografo che magari decide quali parti saltare e quali approfondire.
Come si fa ad essere obiettivi con la propria vita? Quali sono le parti da scartare? E se invece per altri proprio quelle potevano essere interessanti? E se al contrario una parte che per noi è stata fondamentale, al lettore non piace?
Brutto affare l’autobiografia.
Però questa mi continua a incuriosire, nonostante di Carmine Abate [2]tutto ciò che so è che ha scritto altri libri!
Però già che ha deciso di raccontare la sua vita in aneddoti legati al cibo me lo fa stare simpatico!
“dopo gli evviva alla felicità degli sposi, gli adulti si erano buttati a capofitto sugli antipasti e in un batter d’occhio erano spariti gli affettati di capicollo, prosciutto, salsiccia, soppressata con il contorno di funghi, melanzane, olive di tutti i tipi..
(..) Il cuoco d’Arberìa batté le mani e fece comparire cinque donne che in grandi vassoi fumanti portavano shtrydhelat, una pasta fatta in casa e condita con fagioli bianchi, olio, aglio e peperoncino”.[3]
Nel libro si trovano decine e decine di nomi di cibi e ricette, soprattutto arbëreshë[4] ed anche tedeschi e trentini. Però non è un libro di cucina, anzi, è una storia di formazione “saporita”, mai scontata, mai banale, raccontata in modo originale. Inutile dirvi che fame che mi è cominciata a venire mentre mi immergevo sempre più in questa (ri)scoperta di animi autentici, di sentimenti immutabili e aneddoti che somigliano un po’ a quelli di ogni famiglia, però raccontati meglio.
Mi sono rivista nella difficoltà del protagonista-autore di mettere radici, di trovare il luogo in cui dire “sono a casa”, perché forse non è un luogo fisico. Non è la Calabria, la Germania, il Trentino.
“Da tempo cercavo di esorcizzare la nostalgia più subdola, quella che ti fa vivere con i piedi in un posto e la testa in un altro”[5]
Casa è dove si trova sempre il nostro cibo preferito. E se è vero che alcuni valori si stanno perdendo e le famiglie si stanno evolvendo e un po’ distaccando, è altrettanto vero che le occasioni per riunirsi sono sempre legate al cibo, e davanti ai piatti della nonna si va anche un pochino più d’accordo. Il cibo è identità, e anche se ci lamentiamo di questo Pese per tutto, da chi ci governa al trasporto, dalle mancanze sanitarie a quelle di pulizia, non ci sentiremo mai così orgogliosi di quando si cita l’Italia per il cibo. Nemmeno il calcio ci impatriottisce tanto quanto la carbonara, la cassoeula o le orecchiette con le cime di rapa!
E poi, se ci fate caso, proprio come succede in questa storia, le vicende migliori si sono sempre rivelate a tavola.
“in paese furono aperte ben quattro macellerie, il consumo della carne aumentò di anno in anno. Ma noi bambini preferivamo mangiare nella mensa scolastica la pasta con i fagioli o con le patate (…)[6]
L’uomo è ciò che mangia, profetizzava Feuerbach, e chi sa, forse è davvero così.
La cosa che mi ha davvero convinta di questo libro e per la quale mi sento di consigliarlo è che lo stile segue la crescita del protagonista. Se la prima parte sull’infanzia e l’adolescenza è semplice e il linguaggio è disseminato di termini ed espressioni dialettali, tanto nei dialoghi quanto nelle descrizioni, la seconda parte con Carmine adulto, cresce anche lo stile, che si fa più articolato. Questo racconto l’ho letto in poche ore, in piedi dietro il bancone dei biscotti che abbiamo in libreria, eppure mi sembrava di essere con i piedi nel meraviglioso (ma gelido) mare calabro e con la testa sulle montagne trentine.
Ad ogni modo, ovunque decidiate di dare una possibilità a questo sottovalutato libricino, vi raccomando senza dubbio alcuno di avere CIBO[7] accanto a voi!
Ed ecco qua, ora ti espongo meglio, ti metto sotto la luce, ti tengo ben lucido, chi sa che qualche amante del cibo e della buona lettura finalmente si innamori di te e decida di portarti a casa….

È assolutamente vero. Se ci si pensa tutte le occasioni di incontro, che siano liete o tristi, si concludono con un banchetto. Per ricordare o festeggiare.
Grazie per averlo condiviso
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L’ha ripubblicato su Thr0ugh The Mirr0re ha commentato:
La cosa che mi ha davvero convinta di questo libro e per la quale mi sento di consigliarlo è che lo stile segue la crescita del protagonista.
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