l’immagine dei college americani è sempre idilliaca e fa venire voglia di andarci non tanto per frequentare le lezioni (quasi sempre assenti ingiustificate) ma per i dormitori, la mensa, i lavoretti, i gruppi di studio (che tutto fanno fuorché studiare).
Oggi di serie tv di questo genere siamo pieni, ma a “quell’epoca” era una novità, perciò ne rimasi affascinata.
<<Io ti credo, Felicity. È questo il mio dramma: nel bene o nel male, credere sempre in te.>>
Quando tornavo dal liceo con una fame da lupi, mi capitava spesso di dover aspettare il rientro di mio fratello, e per evitare di mangiarmi il piatto e la tovaglia, accendevo la tv sperando ci fosse qualcosa di decente che mi distraesse.
Ovviamente l’ora di pranzo era il turno di mia madre di decidere cosa guardare, ma di tanto in tanto ci lasciava scegliere, purché potesse piacerle.
È così che ho cominciato a guardare “Felicity”.
Era la fine di Maggio, la scuola fortunatamente era agli sgoccioli, ma questo voleva dire compiti in classe e interrogazioni a gogo, perciò l’idea di uscire da quell’incubo e cominciare l’università dove – ingenuamente pensavo – mi sarei potuta gestire io tutto il mio tempo, era un vero sollievo.
“Felicity[1]” poi, dava l’idea…
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